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Scritti nomadi

Il Grande Ufficiale dei pesticidi

 

In Nicaragua un imprenditore avvelena l’acqua, l’Italia lo premia 

«Coraggio, qualcuno deve venire a raccontare la propria storia... Cosa avete? Mal di testa?» Carmen Rios, scandisce le parole e con le braccia che sanno di forza protende il microfono verso i cittadini di Chichigalpa. Quella manciata di passi che portano agli altoparlanti sono per alcuni dei chilometri. Alzarsi dalla sedia significa già mettersi a nudo. Ed è una cosa a cui non ci si abitua. Sotto un tendone in un cortile assolato, in un piccolo cen- tro del dipartimento nicaraguense di Léon, a due ore dalla capitale Managua, una cinquantina di persone affette da insufficienza renale cronica (Irc) è riunita per raccontare chi e cosa gli sta portando via la vita. Ma l’unica cui è rimasta davvero la voce per denunciare è Carmen che sa che il mal di testa sarebbe l’ultimo dei problemi.

Tra le sedie avanza Juan. Ha un cappello da cowboy marrone, sferza quella resistenza trasparente che lo riporterebbe a stare in un angolo: «Vi ringrazio con tutto il cuore di essere qui, di essere venuti a incontrare noi malati di una malattia che ci mina la vita ogni giorno di più. Di solito prima di parlare ascolto gli altri, ma questa volta sem- bra sia già arrivato il mio turno.» Juan ha una cinquantina d’anni e per 26 ha lavorato all’impresa Ingenio San Antonio, proprietà della Nicaragua Sugar Estate Ltd., che è parte del Grupo Pellas.

 

Tutti i lavoratori delle piantagioni di canna da zucchero sono convinti che l’uso massiccio di pesticidi, per la produzione tra l’altro del rum Flor de Caña, stia seminando morte: «Lavoravamo dalle otto alle sedici ore al giorno. La vita è così, ti impone queste regole di sopravvivenza. Ora qui a Chichigalpa per colpa degli europei, in una settimana possono morire dalle sei alle sette persone. Negli ultimi giorni ci hanno lasciato trenta compagni. Questa malattia è peggiore del cancro. Ci pos- sono essere delle medicine che ci aiutano, ma la creatina non perdona. Quando sale nel sangue, ti uccide. E quando parti non torni mai più... Ora mi vedete qui davanti a voi, sembro addirittura in carne. Ma dentro il mio organi- smo è distrutto. Domani potrei non esserci più.» Quando lascia il microfono, Juan accenna un saluto sfiorando con due dita la tesa del cappello. Sotto il tendone le sue parole rimbombano sulla delegazione italiana che sta partecipan- do a una carovana per il diritto all’acqua, che ha attraversato Nicaragua, Honduras, Guatemala e Salvador.

 

È ancora una volta Carmen Rios, presidente dell’as- sociazione Anairc, che rappresenta i contaminati colpiti da insufficienza renale cronica di Léon, a farsi spazio tra i fumi dello choc: «Ci troviamo in questa condizio- ne dal 1969, da quando è arrivata qui la famiglia Pellas, di origine italiana. In quell’anno i Pellas hanno comprato grandi appezzamenti per la monocultura della canna da zucchero nella regione di San Antonio, per la pro- duzione di liquore. Noi siamo tutti lavoratori del settore agroalimentare. Dopo alcuni anni, a partire dal 1990, nella cittadella che l’impresa aveva fatto costruire per i dipendenti, hanno cominciato a esserci i primi morti, e poi ancora morti e morti. Iniziammo a protestare e tutti consigliarono ai Pellas di chiudere la cittadella. I morti poi sono aumentati in maniera impressionante.»

 

Carmen si sforza con poche parole di riassumere anni di tragedie. Dietro alle sue spalle uno striscione avverte: «2.677 morti per insufficienza renale». Alcuni spiegheranno poi che la scritta è già superata. Nel frattempo i morti sono diventati 3.001 dall’inizio del 2006. Migliaia di ex lavoratori delle piantagioni si sono ammalati a causa del contatto diretto e per aver bevuto acque inquinate. La contaminazione però ha investito tutto l’ambiente, dalle acque ai terreni, ai prodotti alimentari, provocando danni sempre più gravi: «Si sono ammalati in più di ottomila: bambini, bambine, donne, giovani, uomini, anziani», elenca Carmen davanti alla platea mu- ta. «Il signor Pellas dice che non vuole sentire parlare di indennizzo, ma noi vogliamo ricordargli che questa realtà che abbiamo intorno è responsabilità sua.» 

 

La società ha scelto di negare tutto. Accusa gli am- malati di essere ubriaconi e drogati e sostiene che le cause delle malattie siano altre. Ma l’acqua del dipartimento di León è contaminata. Lo dicono le rilevazioni, anche se l’inquinamento non è responsabilità esclusiva delle piantagioni di canna da zucchero. Secondo uno studio rea lizzato nel 2006 dall’Università autonoma di Nicaragua il 95 per cento dei 26 pozzi che riforniscono il territorio a nord-est del Paese e il 95,7 per cento dei campioni estratti dai 65 pozzi familiari, sono contaminati da feci, diserbanti, pesticidi e batteri. In particolare la falda acquifera della piana fra Léon e Chinandega, che potreb- be essere una delle migliori del Paese, registra un’alta concentrazione di residui agrochimici tra cui Ddt, Dde, Toxafeno, Endrin e Methil.

 

Un nicaraguense su cinque non ha accesso all’acqua potabile, e questo in un Paese dove l’acqua è la vera ricchezza, visto che ricopre il 15 per cento della superficie, con quasi ottanta fiumi, 32 lagune e due laghi. Il paesaggio rigoglioso si vede anche qui, nella zona di Léon: i lati delle strade traboccano del verde brillante delle mangrovie, della canna da zucchero e delle distese di banani. È qui che emerge l’Ingenio San Antonio, una delle più gran- di piantagioni di canna da zucchero dell’intero Nicaragua e dove viene prodotto, come dice la pubblicità dell’impresa, il rum a cinque stelle.

 

 

La famiglia Pellas, originaria di Genova, si è stabilita in Nicaragua alla fine del 1800. In cento anni ha creato l’azienda più importante del Paese che opera nel settore bancario, dei computer, delle auto- mobili e, naturalmente, del ron.

Lo scorso ottobre, l’ambasciatore d’Italia in Nica- ragua Alberto Boniver (fratello di Margherita, ex sottosegretario agli Esteri e attuale deputata del Pdl), ha «insignito il signor Carlos Pellas Chamorro con l’onori- ficenza dell’Ordine della stella della solidarietà italiana, nel suo massimo grado di Grande Ufficiale» e gli ha at- tribuito il ruolo di Console onorario della città di Grana- da. Proprio pochi giorni prima il Tribunale permanente dei popoli (Tpp) all’interno del terzo forum sociale delle Americhe in Guatemala aveva condannato eticamen- te e moralmente il gruppo Pellas di essere responsabile della malattia e della morte di migliaia di persone. Il Tpp ha richiesto inoltre: «una definizione di condizioni di responsabilità universale, come sanzioni giuridiche efficaci, diffusione pubblica della condanna, confisca degli strumenti del delitto prodotto, multe, riparazione del danno causato e la dissoluzione dell’impresa». Alla comunità del dipartimento di Léon basterebbe anche meno; basterebbe che si sapesse delle loro morti, del loro dolore. Gli ammalati sono semplicemente espulsi dal ciclo produttivo, non hanno pensione né assicurazioni sanitarie.

 

Nel cortile, sedute sotto il tendone, a Chichigalpa le donne hanno gli occhi severi. La maggior parte sono vedove di ex lavoratori. Una signora bruna continua a richiamare l’attenzione di una ragazzina sui dieci anni, che preferisce saltellare tra le sedie, invece di vendere i sacchetti d’acqua che si porta appresso in un secchio con del ghiaccio. Il padre è in prima fila. Quando si alza deve aiutarsi con un basto- ne: «Voglio dire solo quattro parole... Con la nostra morte non finisce questa tragedia. Avete visto quanti bambini ci sono qui? Cosa possiamo dire di una società che non si prende cura dei nostri figli? Ci sono leggi in tutti i Paesi che difendono l’infanzia. Qui nessuno, né il governo né le imprese, rispetta i bambini. Quando ce ne andremo noi chi si occuperà di loro? Chi li curerà se si ammalano?»

 

Le donne stanno lontane dal microfono. Non vogliono raccontare la stanchezza cui ti costringe la malattia. Ogni ora è una sfida ai gesti quotidiani. Con una televisione piazzata su un tavolino all’aperto sarà un video a raccontarci la sofferenza provocata dall’Irc. Nelle im- magini vengono raccontati gli ultimi giorni di Carlos, 34 anni, trasportato da un letto all’altro e accudito con un amore senza fine. Antonio ha la voce che trema quan- do si rivolge alla delegazione europea: «Ma come potevamo sapere che quell’acqua era maledetta? Nessuno ci aveva detto di non bere dalle tubature. Quando faceva caldo poi ci bagnavamo la testa con l’acqua della piantagione. Facevamo le docce così, per trovare un po’ di sollievo dalla stanchezza. In tanti ci avranno sulla coscienza. Ma è giusto che sappiano che i morti sono solo quelli che hanno l’anima morta.»

 

L’illusione non è di casa a Chichigalpa. Gli abitanti han- no visto troppo per potervi cedere. «Sappiamo che non ci daranno niente», dice Carmen Rios, «sono troppo potenti contro di noi. Ma pretendiamo che almeno si sappia, che questa cortina di silenzio connivente sia rotta. Che nella ric- ca Europa si parli finalmente dei disastri causati dai veleni delle vostre società, che vengono pure premiate.»

Il difficile nella lotta dell’Anairc è dimostrare che la ma- lattia è provocata dai pesticidi utilizzati nelle piantagioni. Ma se è complicato ottenere le prove schiaccianti, vi sono comunque alcuni dati del ministero della Salute che risalgono agli anni 2002 e 2003 che sono già indicativi. L’Irc già in quel periodo stava diventando una delle principali cause di morte nel Paese, con un tasso del 4 per cento. La per- centuale, secondo l’inchiesta, triplicava nei dipartimenti di Léon e Chinandega. Alcuni medici nicaraguensi che han- no studiato la diffusione della malattia hanno nominato il dossier: «Irc: cronaca di un’epidemia silenziosa».

 

Juan ha ascoltato tutto quello che c’era da ascoltare. Ha aiutato anche a distribuire agli ospiti il piatto di tamal, l’involtino di farina di mais. Ed è tempo di tornare al microfono per la despedida alla carovana che per tre settimane ha toccato alcuni punti dolenti del Centroamerica. «Vi chiediamo di diventare la nostra voce. Raccontate al mondo quanto ci è costato il lavoro e quanto valgono le onorificenze.» Le donne, fino a quel momento sedute, si alzano e si sparpagliano tra gli ospiti, abbracciandoli.

 

Il Diario, marzo 2009

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