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Scritti nomadi

 

Il lungo cammino per l'integrazione dei Kalé di Spagna 

 

“Raccontami, gitano, dov'è la nostra terra? Le nostre montagne, i nostri fiumi, le nostre terre, i nostri boschi, la nostra patria, i nostri sepolcri? Si trovano nel luogo delle parole, dentro la nostra lingua”. È con questa frase che il sociologo Jiménez Gonzales ci immerge nel tormento che accompagna da sempre le popolazioni romanì, la minoranza più antica e numerosa del mondo. Possiamo considerarli come i primi “profughi” della storia e per questo i più discriminati.

 

In Spagna, il loro errare è finito a forza di disposizioni autoritarie e persecuzioni di massa. Ma la ricerca delle proprie radici non è mai terminata. Anzi, diventa più che mai di attualità in un Paese dove, come in nessun altro, la loro identità è patrimonio vivo: “In Spagna, malgrado le persecuzioni – sottolinea Jiménez Gonzales – il grado di integrazione dei gitani all'interno della società e nella cultura popolare è superiore rispetto al resto dei Paesi, non solo europei, ma del mondo intero”.

 

Le discriminazioni nella penisola iberica persistono, ma emergono in una società in cui negli ultimi decenni c'è stato un grande impegno nella difesa delle minoranze. Per arrivare all'attuale integrazione il prezzo pagato è stato altissimo, prima di tutto dover sacrificare parte della propria cultura. Lo aveva già denunciato nel 1830 il pastore anglicano George Borrow, che per una decina di anni viaggiò in diversi angoli della Spagna per conoscere le realtà presenti sul territorio: “Dubito esista un altro Paese dove si siano promulgate misure per sopprimere il nome, la razza e lo stile di vita quanto quelle per i gitani”(1).

 

Le popolazioni gitane nel loro processo migratorio da Oriente a Occidente, iniziato nel X secolo con la fuga dalla regione che si trova tra il nord dell'India e l'attuale Pakistan, riuscirono solo dal XIV secolo ad avere accesso in Europa. Nel lungo cammino durato secoli, molte comunità trovarono rifugio in Cappadocia, in Turchia, anticamente denominata Asia minore. È da qui che proviene l'appellativo “egizi” attribuito fino a pochi decenni fa ai gitani, considerati erroneamente provenienti dall'Egitto (2).

 

In seguito, l'accesso all’ovest dell’Europa avviene grazie a un salvacondotto concesso da Papa Sisto V durante il Concilio di Costanza, per permettere ai pellegrini gitani di visitare la tomba dell'apostolo Giacomo a Santiago di Compostela (3). Nel 1425 nella penisola iberica, sotto la Corona aragonese arriva il primo gruppo di tremila persone. Re Alfonso V decide di estendere la disposizione papale e in pochi decenni nei municipi del territorio, in particolare in Andalusia, si stabiliscono le comunità e viene data loro accoglienza. Una luna di miele che durerà poco. Dedicati ai lavori artigianali e manuali per i nobili, i gitani affascinavano con la maestria nel canto e nel ballo. Fino al 1478 partecipavano alle processioni cattoliche di Guadalajara, Segovia e Toledo. Ma presto l'estro smisurato, i costumi variopinti, uno stile di vita alternativo aprono la strada ai pregiudizi.

 

La Chiesa cattolica considera le pratiche di medicina orientale al limite della stregoneria, da sconfiggere con l'Inquisizione. Mentre nei Paesi europei iniziano le prime espulsioni, la Spagna è in pieno processo di unificazione (1492-1517). I re cattolici vogliono “uniformare” il regno, e avviano persecuzioni di ebrei, musulmani e gitani. Nel 1499 la legge “Pragmatica” esige che “gli egizi cessino di vagare per il Regno” e trovino un impiego fisso. Una disposizione che prevede punizioni progressive, dai 60 giorni di reclusione all'amputazione delle orecchie, fino alla schiavitù (4).

 

“È da questo momento– sottolinea Sergio Rodríguez López-Ros, attuale direttore dell'Istituto Cervantes di Roma, docente e autore del libro "Gitanidad" – con l'inizio della repressione che i gitani spagnoli abbandonano il nomadismo e diventano comunità sedentarie. Lavorano le terre come braccianti per la nobiltà. Altri si spingono verso le città per diventare artigiani. Intorno alle mura di accesso dei centri urbani nascono i loro storici quartieri, come Triana a Siviglia, El Rastro a Madrid e La Cera di Barcellona”.

 

 

Dal romanì al caló

 

In un “crescendo” sono introdotte nuove leggi draconiane, come il divieto dell'uso della lingua romanés e dei vestiti tradizionali. Tutte disposizioni su cui pesano repressione e rischio di espulsione. Nel 1749 Fernando VI da il via alle persecuzioni con arresti di massa e confina almeno 12mila persone ai lavori forzati. Occorrerà attendere fino al 1783 per un allentamento dei controlli nei confronti di queste comunità. Carlo III concede loro la “libertà” di lavorare. Ma la lingua è definitivamente bandita. “Le severissime disposizioni hanno indotto le comunità a relegare il romanì all'interno dell'ambiente famigliare e delle comunità, sia come strumento di coesione sia di protezione dai gadjé, i membri della società maggioritaria. Nel corso del tempo la lingua di origine sanscrita – precisa Sergio Rodriguez – si mescola con il castigliano. E progressivamente viene sostituita dal caló. Oggi rimangono solo poche parole che provengono dal romanì e che vengono utilizzate all'interno della grammatica spagnola”. Il caló non si può definire un dialetto del romanì, ma l'incrocio tra due culture da cui è nato il neologismo “pogadolecto”.

 

Per i gitani spagnoli, i Kalé, si tratta di una trasformazione imposta nella storia dalle persecuzioni. Li priva dell'antica lingua, che malgrado le lunghe migrazioni è l'elemento in comune con le altre comunità romanés disperse nel mondo. Nei secoli e fino ai giorni nostri questo idioma è stato un veicolo sia di identità sia di autodifesa, spiega lo studioso gitano di origine Britannica Ian Hanckock: “La lingua è stato uno strumento non solo per comunicare ma anche uno scudo contro le persecuzioni”. Per sopravvivere, invece, i gitani spagnoli hanno dovuto sacrificare una parte di sé, che ora è ulteriormente minacciata: “Noi gitani spagnoli parliamo caló – spiega il sociologo Jimenez – che però è in pericolo di estinzione. Se tutte le lingue hanno come funzione fondamentale la comunicazione, è molto tempo che il caló ha smesso di essere utile in questo senso. Oggi serve solo come strumento identitario che permette di far scattare la solidarietà tra le comunità”. Ma anche il castigliano non è rimasto immune dalle influenze. Nella lingua sono molte le parole che provengono dal romanì, come ad esempio “chaval” che significa “ragazzino”, “camelar”, “desiderare”, o “jallar”, “mangiare”. Molte, soprattutto in Andalusia, sono di uso corrente, tanto che ne è nato un motto all'insegna del melting pot: “qui non si sa dove finisce un gitano e dove comincia un andaluso”.

 

Il flamenco gitano

 

Oltre alla lingua sono state musica e flamenco a permettere ai gitani di penetrare nella società spagnola. I primi café chantant in Andalusia, intorno al 1850, diventano il palcoscenico per gli artisti fino a quel momento costretti a nascondersi nella clandestinità. Attraverso l'arte, in un'estetica che fonde improvvisazione e movimento, il mondo dei Kalé trova uno spazio nella società spagnola, anche grazie a figure dirompenti come la bailaora Carmen Amaya (5). “Noi gitani quando cantiamo flamenco – dice l'artista Tomás de Perrate – stiamo facendo molto di più che semplice musica. Trasmettiamo la nostra cultura oralmente”. Più drammatico il sentimento trasmesso da una leggenda del flamenco andaluso, quello di Tia Anica la Pirañaca della città di Jerez. Quando le chiesero cosa la spingeva a quel lamento doloroso rispose: “Nel momento in cui provo piacere cantando, sento in bocca il sapore del sangue”(6).

 

Ma sebbene l'arte riesca ad avvicinare queste comunità al resto della società spagnola, il cammino per l'integrazione resta ancora lungo e accidentato. Soprattutto perché, malgrado i passi avanti, le comunità gitane di fronte all'industrializzazione delle campagne a metà del 1950 sono costrette a emigrare verso le grandi città rimanendo al margine del sistema produttivo. I quartieri periferici dove si insediano diventano dei “ghetti”, le opportunità per gli abitanti sempre più limitate e la struttura delle famiglie tradizionali è alterata da fenomeni di droga e devianza.

 

 

L’associazionismo in difesa delle comunità romanì

 

È in questa condizione di allarme che, anche grazie all'impegno di alcuni settori della Chiesa cattolica, sorgono le prime strutture in difesa dei gitani. Si diffonde tra le giovani generazioni una nuova coscienza collettiva. “Dobbiamo formare mediatori, elaborare materiale pedagogico, creare nostri media e lottare per entrare a far parte delle istituzioni” avvertiva già all’epoca lo psicologo Domingo Jiménez.

Nel 1965 nasce così il Segretariato Gitano di Barcellona che, in collaborazione con una quindicina di diocesi, inaugura una serie di progetti di intervento sociale e di sensibilizzazione pubblica per diffondere conoscenza e rispetto della loro cultura.

 

Dalla Costituzione del 1978 sono eliminati i riferimenti che istituzionalizzavano la discriminazione contro i gitani. Il regime franchista era tornato a una pesante persecuzione. Oltre a impedire l'uso del calò aveva introdotto due leggi contro le comunità considerate di “delinquenti” accusate di “pericolosità sociale” e “nomadismo”.

Ma alla fine del franchismo, grazie all'introduzione nella Costituzione dell'articolo sulla libertà di associazione, nascono nuove organizzazioni come l'Associazione Gitana di Valencìa e l'Unione romanì.

 

Il governo nel 1985 pianifica un programma di sviluppo gitano, che prevede delle sovvenzioni. A livello politico i Parlamenti autonomi, come per esempio quello catalano, approvano una risoluzione in cui si riconosce “l'identità del popolo gitano e il valore della sua cultura”. “Ora partecipano direttamente alla vita politica – precisa Sergio Rodriguez – inoltre tutti i partiti includono nel loro programma elettorale la questione gitana. Trasversalmente nelle istituzioni ci sono strutture per ascoltare le loro voci, come per esempio al ministero della cultura”.

Tra i primi a dedicarsi alla lotta politica per il miglioramento della condizione del popolo gitano c'è sicuramente Juan de Dios Ramirez-Heredia, deputato al Parlamento spagnolo dal 1977 al 1985 e in seguito a quello Europeo fino a ricoprire l'incarico di presidente dell'Unione Romanì.

 

Ma secoli di pregiudizi non si superano in pochi decenni e molti stereotipi antigitani influenzano ancora oggi la vita di queste comunità che difficilmente vedono rispettati i loro diritti fondamentali e le loro differenze e specificità culturali.

In Spagna, i gitani sono circa 750.000 e tuttora sono socialmente esclusi ed emarginati (7).

 

Secondo le denunce delle organizzazioni romanés, il 60% dei giovani di età superiore i 16 anni è analfabeta. Gravissima è anche la condizione lavorativa, con il 36% della popolazione gitana disoccupata. Un problema che sta diventando cronico, considerato che negli ultimi dieci anni il tasso dei senza lavoro è triplicato e gli impieghi stagionali sono praticamente scomparsi.

 

“Negli ultimi 10 anni sono migliorati gli strumenti per combattere la discriminazione che però non è diminuita – spiega Sara Giménez, della Fondazione del Segretariato Gitano – si continua a negare ai gitani i servizi, l'accesso al lavoro, alla casa e all'educazione”. Nell'ultimo anno sono stati registrati 151 casi di discriminazione. “Sono circostanze in cui emerge il rifiuto quotidiano che spesso sconfina in aggressioni, violenza, manifestazioni razziste o attacchi contro le abitazioni”(8). Una grossa parte della responsabilità risiede nei mezzi di comunicazione (32%), che diffondono e alimentano gli stereotipi antigitani. Sulle reti sociali e internet (19%) “si supera la discriminazione arrivando all'incitazione all'odio”. Nel mondo del lavoro sono 22 i casi segnalati dalla Fundazione Secretariato Gitano (FSG) di persone che si sono viste negare il lavoro per il fatto di far parte di questa minoranza. Molti, secondo alcune associazioni, evitano di denunciare i casi.

 

Ancora difficile è anche la situazione economica di molte comunità colpite ulteriormente con la crisi (9). Al giorno d'oggi tre su quattro cittadini di etnia romanì in Spagna vivono sotto la soglia di povertà e il 54% della popolazione gitana si trova in condizioni di estrema povertà. Tra questi vi sono molte comunità, composte da circa 40mila persone, giunte negli ultimi anni dall'est Europa, in particolare da Romania e Bulgaria. In fuga da un razzismo sempre crescente, hanno cercato rifugio nel “modello spagnolo”.

 

 

1) Dal libro “Los Zincali, Los gitanos en España” di George Borrow, pubblicato nel 1841 e ora disponibile nell'edizione del 2000 per la casa editrice Portada Editorial.

 

2) Dal libro “Gitanitad, otra manera de ver el mundo” di Sergio Rodríguez López-Ros, Kairos Edizioni, 2011.

 

3) Starkie W. (2010) El camino a Santiago. Las peregrinaciones al sepulcro del apóstol. Ed. Cálamo, Palencia.

 

4) “Los gitanos, seis siglos discriminados” di Ramon Chao, Le Monde Diplomatique, Aprile 2012.

 

5) Dal libro “Carmen Amaya 1963. Taranta. Agosto. Luto. Ausencia”, con testi di Ana Maria Mox, foto di Colita i Julio Ubiña, Editoriale Libros del Silencio. 2013.

 

6) El Pais, “Murió a los 88 años Tía Anica la Piriñaca”, 6 novembre 1987.

 

7) Fonte Fondazione Segretariato Gitano, da El Pais “750.000 maneras de ser gitano” , 2 Settembre 2013.

 

8) El Mundo,“Las mayores discriminaciones a la comunidad gitana se dan en prensa y empleo”, 4 Febbraio 2015.

9)PNUD. The Health Situation of the Roma Communities. Analysis of the Data from the UNDP/World Bank/EU Regional Roma Survey. http://issuu.com/undp_in_europe_cis/docs/health_web#.

 

 

Babelmed, 10/03/2015

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